Ho sempre indossato il dramma come si veste un cardigan fra la primavera e l’estate: ben ancorato sui fianchi e nella tipica posizione degli avambracci da donna divorziata.
Nell’ultimo mese, complice la nuova analisi degli ascolti più frequenti propinata da Spotify, ho compreso nel profondo di essere diventata una donna diversa e di dover sbloccare un ulteriore livello patologico di drama.
Così ho accantonato il punk: il punk è ovviamente drammatico amici, nonché eco friendly per le serate da grandine e qualche altra precipitazione atmosferica di gusto estetico.
Non l’ho accantonato veramente: ho solo avuto modo di percepire che le mie playlist stavano pericolosamente virando verso un universo lontano dagli eyeliner e dal kajal nero sbavato sino agli zigomi, per avvicinarsi in maniera precipitosa ad un qualcosa di molto simile a Loretta Goggi.
Non dovete temere per me, la pandemia può solo aver limato una base che, in realtà, poteva esistere potenzialmente da anni: Maledetta Primavera è una tappa che, prima o poi, nella vita di una ventitreenne con un’esistenza da romanzi indie pop arriva.
Quindi è successo: ho instaurato un rapporto di amicizia e intesa mentale con Mia Martini tale da sentire le sue parole come se fossero cucite sulla mia esistenza.
Sì okay, alla fine della giostra viviamo tutti pressappoco la stessa tiritera e ci sono testi slash citazioni che possono sposarsi alle giornate di tutti: la realtà è che sono troppo egoriferita per accettarlo e pretendo che certi pezzi siano stati coniati appositamente per le mie delusioni verso il genere umano e le mie dannose aspettative.
Non è forse questo il compito di un cantautore? Piantare corde vocali nella gola di emozioni senza voce e regalarle affinché altri le possano utilizzare?
Se poi vieni parafrasato per le didascalie di Instagram, è un rischio che affronti per incappare nell’albo dei Grandi.

La lingua italiana è stupenda, ma l’uso che ne faceva Fabrizio De André è sconvolgente e meriterebbe uno Zanichelli a parte perché scandite da lui certe parole hanno un suono che sembra appartenere ad un idioma a sé.
Regalatevi l’esperienza di ascoltare Volume 3 dinnanzi ad una location che significhi qualcosa nella vostra vita: non conosco il resoconto della vostra settimana, ma do per scontato che ve lo meritiate.
Le ultime riflessioni su quelli che sono i comandamenti che ho coniato sul fronte del cantautorato italiano, comprendono un parallelo fondamentale: non accontentatevi di una persona che, al vostro fianco, vi regali un qualcosa di meno rispetto a quanto descritto nel testo di En e Xanax di Samuele Bersani.
Ascoltate E non finisce mica il cielo in un orario di dubbio gusto, dove ci siete solo voi e il peso gravitazionale delle vostre occhiaie (brano da aggiungere alla setlist della Playlist delle cinque del mattino).
Sentitevi La leva calcistica della classe ’68 e poi tiratelo quel rigore: che finisca in rete o sulle tribune, è sempre meglio di non averlo mai battuto.
Quali sono le vostre canzoni della vita in ambito di cantautorato italiano? Sarei felice di leggervi nei commenti!